La tesi di laurea come lezione di vita

Nel 2002 mi sono laureato all’Università di Bologna in Scienze politiche, sebbene vivessi da dieci anni in Germania. La tesi di laurea ha rappresentato una stazione importante nel mio percorso di ricerca. Qui la prefazione al lavoro di allora.

Nessun pensiero, nessuna conoscenza e nessun valore umano può ritenersi neutrale. Ogni produzione umana e scientifica, che abbia una pretesa universale, deve essere esaminata in maniera particolarmente critica. In un mondo dominato da strutture di potere e di crescente disuguaglianza, la cosiddetta »neutralità« finisce spesso solo per nascondere – e quindi legittimare – la loro realtà.

Questo lavoro di ricerca non è, né vuole essere neutrale, ma rappresenta invece il prodotto di un punto di vista. Questo non significa che le prossime pagine siano solo un elenco di opinioni personali. Anche in un lavoro scientifico il punto di vista si materializza in una selezione di fonti, informazioni, teorie, argomentazioni e analisi. Questo lavoro è il risultato dei primi tre decenni della mia vita: del mondo, delle persone, dei libri e delle idee che ho conosciuto. Ma anche di ciò, che non ho conosciuto. È un lavoro sulla base delle esperienze che ho fatto, ma anche di quelle che non ho fatto.

La prima finestra sul mondo è senza dubbio quella della famiglia di origine, nella quale i nonni rappresentano una biblioteca di storia. Quelli che ho avuto io – Giuseppe e Antonio, Agostina e Giacomina – non si sono mai stancati di raccontare delle ingiustizie, della miseria e della fame sofferta nella prima fase della loro vita. C’era però una cosa che essi ripetevano più di ogni altra: nulla è più terribile della guerra. Ecco perché ai loro nipoti essi augurarono di non dover mai rivivere una tragedia simile – per nessuna cosa al mondo, qualunque ne fosse la giustificazione. È una cosa che non ho mai dimenticato.

Quella in cui sono cresciuto è stata una famiglia in continua tensione–trasformazione fra patriarcato e matriarcato, fra un mondo contadino e il mondo operaio, fra tradizione e modernità, fra fede cattolica e impegno politico di sinistra, fra anni d’impegno e riflusso nella vita privata. I problemi politici ed economici erano spesso problemi privati – e viceversa.

Nel 1984 Amos, Francesca, Luca e io, tutti ragazzi fra i 15 e 20 anni, fondammo il Gruppo Ecologico di Villa Verucchio (GEW), iniziammo a collaborare con il WWF e Legambiente, ma capimmo ben presto che il problema ecologico poteva essere risolto solo partendo da una riflessione sulla vita sociale e culturale. Senza una coscienza sull’interconnessione fra l’interesse privato e quello comune sarebbe stato difficile attirare l’attenzione della gente su ciò che apparteneva a tutti: i fiumi, i boschi, gli uccelli, l’aria, l’acqua, il territorio, la comunità, il futuro. Creammo quindi gruppi di animazione per bambini e di riflessione per adulti. Organizzammo discussioni su una pedagogia e una vita alternativa. Contemporaneamente, ci capitò quello che capitava a molte altre iniziative: parti della popolazione locale reagivano con sospetto e sfiducia alle nostre intenzioni. Questa fu un’esperienza che feci anche più tardi. Perché parti della popolazione preferiscono i problemi alle soluzioni? Perché l’insoddisfazione generale non riesce a trasformarsi in energia collettiva di cambiamento? Per il futuro della nostra società queste domande sono di centrale importanza.

Una volta Paola Pastacaldi, una giornalista dalla casa editrice Mondadori, mi riferì quello che le aveva detto il suo maestro Alberto Cavallari (Corriere della Sera): »Nella vita ci sono momenti in cui bisogna avere il coraggio di fuggire«. Probabilmente questo fu quello che feci nel 1989, quando me ne andai dal paese di campagna, Villa Verucchio, per stabilirmi nella città di Bologna. Volevo far crescere il bambino che era in me. Volevo scoprire cosa c’era oltre gli orizzonti limitati della piccola comunità, quegli orizzonti, che fino allora mi avevano protetto. Il desiderio di autonomia ad ogni costo mi portò a fare errori, ma anche questi furono una lezione di vita.

A Bologna divenni studente universitario nella Facoltà di Filosofia. Lo studio era un »diritto«, che nel 1989 costava due o tre cento mila lire l’anno di tasse universitarie (cresciute poi fino al milione e mezzo di lire nel 2001). Ad essi andavano sommati i costi di vitto e alloggio, libri, trasporti e così via.

Conobbi quattro gruppi principali di studenti:

  1. Quelli che dovevano continuamente dimostrare (soprattutto a sé stessi) di essersi veramente guadagnati il »diritto«, e si sentivano allo stesso tempo insicuri per il solo fatto di avere due mani già pronte per lavorare. Lo studio era per loro un lusso, un di più, spesso pagato con i sacrifici dei genitori. Di questi studenti, pochissimi riuscirono a raggiungere la laurea, mentre molti si ritirarono prima.
  2. Gli studenti che dovevano ad ogni costo riscattare sé stessi e la propria famiglia, cercando di raggiungere una posizione sociale più elevata, soprattutto più sicura. Questi studenti non studiavano filosofia, ma spesso economia e commercio, ingegneria.
  3. Quelli per cui studiare non era un diritto, ma una cosa normale, uno status con cui si era nati, visto che anche i genitori avevano studiato e fatto carriera. I problemi finanziari erano, in questo caso, rari.
  4. Quelli che intendevano lo studio come passione – volendo capire il mondo, l’uomo e la vita. Un modo per allargare gli orizzonti a prescindere dai sacrifici, dalle possibilità di lavoro futuro, dallo status.

Io ho rischiato di appartenere al primo gruppo, ma sono riuscito fortunatamente a rimanere nell’ultimo. Il mio studio è durato tredici anni, non senza crisi, non senza dubbi da superare. Solo il lavoro per la mia tesi di laurea è durato un anno e mezzo: mi sono veramente guadagnato questo lusso? Non lo sò ancora, ma mi sento già in debito – non solo con la mia banca. Questo debito lo voglio saldare, possibilmente senza essere costretto a lavorare per il solo profitto (altrui o proprio).

I corsi universitari, in cui imparai di più, furono quelle di professori che trasmettevano una curiosità per domande complesse. A Bologna conobbi molti studenti stranieri. Fu soprattutto la loro diversità culturale a farmi capire, che il mondo a cui ero così abituato, non era né l’unico possibile, né l’unico esistente. Ero attivo nei Collettivi studenteschi. Per finanziare gli studi feci diverse esperienze lavorative. Da manovale edile conobbi molti ragazzi del profondo sud e anche extra-comunitari. Oggi sono felice di essere stato trattato esattamente come loro, perché ciò mi ha dato la possibilità di capire cosa sia lo sfruttamento e la mancanza di rispetto: certe cose non si imparano nell’università, che prepara le élite del futuro.

Nel 1991 utilizzai il servizio civile per tornare dalla fuga, al paese nel quale ero cresciuto. Era l’ultimo tentativo di conciliare la mia diversità con il senso di appartenenza alla comunità. Ebbi la possibilità di fare il servizio civile per l’Assessorato alla cultura del Comune di Verucchio. Cercai di utilizzare questa possibilità per cambiare il paese, per trasformare l’insoddisfazione collettica in creatività collettiva. Cominciai a lavorare all’idea di costruire un centro sociale autogestito, come laboratorio di uno sviluppo diverso del Comune. Creammo l’iniziativa Giovani in ComunicAzione, trovammo una casa in campagna dove fare il centro. Poi il tentativo fallì, c’erano troppe resistenze, anche della Chiesa locale. Alla fine del 1992, a 23 anni, mi trasferii in Germania.

In questi nove anni di deutsche vita non ho trovato il paradiso, anche perché non l’ho cercato. Ma sono cresciuto. Questa tesi di laurea non rappresenta solo la fine degli studi universitari bolognesi, ma anche quella di una fase importante della mia vita.

Il mio progetto di tesi si è orientato a quattro obiettivi:

  • la possibilità di colmare alcune lacune d’interesse rimaste aperte in questi anni di studio;
  • fare un primo bilancio delle cose che ho imparato;
  • la trasmissione di un sapere a chi non ha avuto la fortuna, che ho avuto io;
  • un modo di dare un senso al (mio) lavoro e alla (mia) vita, passata e futura.

Spero ne sia valsa la pena. La cosa più difficile nella realizzazione di questo progetto è stata senza dubbio la selezione delle informazioni e la gestione della complessità. Tanti libri, tante informazioni, tante questioni, posizioni teoriche e critiche. Contemporaneamente sempre meno tempo a disposizione. E soprattutto sempre meno soldi in banca. Come ha scritto il dipartimento »Nuovi modelli di benessere« dell’Istituto di Wuppertal, »oggi, nella società delle opzioni multiple, la riuscita di una vita non è minacciata dalla mancanza, ma dall’abbondanza delle possibilità. In questa situazione la capacità di selezionare e di rinunciare a possibilità diventa una necessità di sopravvivenza«. Ho scritto molte pagine per confermare il valore di queste affermazioni.

Secondo Barry Commoner, il famoso biologo americano, il primo principio dell’ecologia è: ogni cosa è connessa con qualsiasi altra. Ma come è possibile rispettare questo principio nella ricerca? Quando è giusto agire, nonostante l’incompletezza delle conoscenze a disposizione? Come si può essere ecologici e allo stesso tempo limitati? Quanto è abbastanza?

Mai come ora ho dovuto combattere con me stesso, non per superare i miei limiti, ma per accettarli. Nel caso della mia tesi l’autolimitazione è stata la condizione per proseguire la mia vita. In questo lavoro i limiti sono un tema centrale. Ogni limite ha un significato ambivalente, intrinsecamente legato alle due facce dell’esistenza. Il limite può essere la garanzia di un ordine, di un equilibrio, di una sicurezza, ma allo stesso tempo esso può essere anche un muro, una prigione, un ostacolo alla libertà. Il limite può essere il fondamento di una forma di appartenenza e di identità, ma anche un confine di separazione e di divisione.

I limiti non sono ciò che impedisce l’esistenza, ma anche ciò che la rende possibile.

Bologna, 3 dicembre 2001                                                            Davide Brocchi


La tesi

  • Titolo: Concetto e concezione dello sviluppo sostenibile in Germania
  • Facoltà: Scienze Politiche, Università di Bologna
  • Data d’esame: 22.02.2002
  • Relatore: Prof. Alberto Tarozzi
  • Riassunto: La ricerca si occupa delle radici culturali della crisi globale. Visto che i problemi non possono essere risolti con lo stesso modo di pensare, che li ha causati (A. Einstein), lo sviluppo sostenibile presuppone un cambiamento culturale profondo. La cultura è la matrice comune della “costruzione sociale della realtà” e della “costruzione sociale dell’ambiente”. La riduzione di complessità avviene attraverso i filtri selettivi della cultura. Nel caso estremo questa riduzione conduce alla “monocultura”, controllabile, ma poco resiliente e molto propensa alle crisi. Attraverso la tecnologia, l’ambiente può essere adattato alla concezione di mondo dominante, mentre sostenibile è l’evoluzione culturale (l’adattamento della concezione all’ambiente). In questo studio del 2002 ho posto i fondamenti per tutta la mia ricerca sulla dimensione culturale dello sviluppo – e i modelli relativi (modernizzazione, globalizzazione, sostenibilità).
  • Documento Tesi di Laurea
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